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Per i più piccoli
28.02.2023
Storia di un gatto triste che inventò il blues

Questa è una storia vera, inventata per chi crede che la tristezza sia solo una cattiva compagna.

Vecchi pirati in Africa

Non ho molti ricordi di quando ero bambino. Non so quale sia il giorno del mio compleanno. A dirla tutta, non so nemmeno di preciso in che anno sono nato e dove. Non avevo una casa, dei genitori o dei fratelli. Non avevo giocattoli o vestiti, se non qualche straccio che trovavo ai bordi delle strade. Passavo le mie giornate mangiando i frutti che rubavo dalle piantagioni di banane o dalle palme di cocco. Quando non rubavo da mangiare mi piaceva andare fino alla spiaggia e correre fino a che il sole non andava a dormire per lasciare il palcoscenico alla luna. Ero molto forte e correvo molto veloce, la vita non mi aveva dato molto ma ero felice ugualmente, ero libero.

Durante alcune notti, quando la luna mostrava il suo intero volto, vedevo nel buio la sagoma di un enorme animale nel mare che galleggiava, come un ippopotamo ma molto più grande. Lo vedevo danzare lento sulle onde seguendo sempre lo stesso ritmo, mai incalzante, mai affrettato mentre la luna disegnava timidamente il suo profilo. Su una lunga antenna che partiva da metà della schiena aveva appeso un fazzoletto nero con un disegno bianco che non distinguevo bene. L'animale sputava una scia di fuoco che usciva e si perdeva nel buio della foresta e della notte. Ma la scia di fuoco tornava sempre e, quando tornava, l'animale la ingoiava di nuovo. La scia veniva ingoiata lentamente allo stesso ritmo con cui l'animale danzava e mentre spariva nelle sue fauci sentivo delle urla assordanti che svanivano solo quando l'animale svaniva nuotando sulla superficie del mare reso luccicante dalla luna.

Avevo molta paura dell'animale quindi non mi avvicinavo troppo, restavo al sicuro in una capanna che avevo costruito con le foglie dei cocchi e il fango del fiume. Una notte però la mia pancia non era tranquilla. Durante il giorno mi avevano beccato a rubare le banane e quella volta rischiai anche che mi tagliassero una mano per insegnarmi la lezione. Per fortuna riuscii a scappare tenendomi entrambe le mani, ma quando ti fai beccare c'è sempre un prezzo da pagare, in questo caso era la fame. La mia pancia ruggiva come una leonessa a caccia e, anche se sapevo benissimo che non avrebbe portato nulla di buono, pensai potevo rubare un po' di mangiare al grosso animale. In fondo le scie di fuoco che ingoiava erano sempre più lunghe, non si sarebbe arrabbiato più di tanto.

Non fu per coraggio, ma solo per fame che uscii dalla capanna e lentamente, seguendo il ritmo delle onde, andai verso il grosso animale. Camminare nella foresta non era prudente, la sabbia avrebbe attutito il rumore dei miei passi. Mi muovevo cauto nel buio per non inciampare o farmi male, l'unica luce che avevo a disposizione era quella della luna. Camminavo sulle punte prima lento, poi più spedito, poi ancora lento, qualche saltello per evitare le conchiglie e poi stop. Contai fino a dodici ed arrivai alle fauci del grosso animale. Prima ancora di capire, una torcia infuocata mi accecò ed una voce rauca e crudele urlò: - Ciao Ciao Africa! - seguito da una risata ancora più crudele. Poi il buio.

Nel covo dei pirati

Mi svegliai il giorno dopo con le catene alle mani e il sangue rinsecchito tra i capelli. Attorno a me c'erano tante persone, anche loro legate. Chi piangeva, chi fissava il vuoto, chi cercava di spezzare le catene tirandole o mordendole. Uno di questi ci provò così forte che gli saltò un dente fuori dalla bocca e che arrivò dritto sui miei piedi. Non avevamo idea di dove fossimo, io non avevo nemmeno idea di come ci fossi finito. Il pavimento si muoveva su e giù, ritmicamente, lo stesso ritmo del grosso animale. Iniziai a pensare che fossimo stati tutti ingoiati e che ci trovavamo proprio nella sua pancia. Ad un certo punto però il brusio e i pianti cessarono. Sopra le nostre teste iniziammo a sentire un suono, come di passi ma più sordo, lento ma deciso. Il suono si mischiava al ritmo del movimento del pavimento. Quando andava a destra il suono batteva due volte, la stessa cosa quando andava a sinistra batteva due volte. Poi il ritmo aumentò: a destra quattro colpi, una pausa e poi a sinistra altri quattro colpi. Contai ancora fino a dodici e all'improvviso una lama di luce tagliò il buio, illuminando quattro gradini, il pavimento e il dente ancora sporco di sangue ai miei piedi.

Un uomo vestito strano scese da quei gradini con lo stesso ritmo che sentivo sopra la testa poco fa. Non una parola, non un fiato, tutti con lo sguardo rivolto verso di lui. Aveva una bottiglia mezza piena nella mano sinistra e un bastoncino che fumava nella mano destra. Al petto portava una grossa catena gialla con un medaglione che aveva lo stesso disegno del fazzoletto sulla schiena del grosso animale. Una strana pelle bianca si nascondeva dietro una lunga e disordinata barba, tagliata da due labbra rosse e spezzate che disegnavano un ghigno che ancora oggi mi fa rabbrividire. Ad un tratto dalla sua bocca uscii un grido rauco e lungo, quasi assordante lo riconobbi: era lui che mi aveva portato lì. Iniziò a parlare una lingua strana che non avevo mai sentito ma dal tono che aveva sicuramente non voleva dire nulla di piacevole. Appena smise di parlare fece una pausa e dietro di lui spuntò un altro uomo come noi nell'aspetto ma come lui nel vestire. Iniziò a parlare: - Benvenuti sulla Blue Moon, questo è un viaggio di sola andata verso un Paese chiamato America. Da oggi siete di proprietà del qui presente capitano della Blue Moon. Sarà un lungo viaggio e se non creerete problemi non vi succederà nulla. Chi prova a scappare verrà punito severamente. Ogni tentativo di rivolta e ammutinamento sarà punito con la morte. Si mangia una volta al giorno, chi chiede altro cibo verrà punito. Chi ruba il cibo verrà punito. A breve vi toglieremo le catene. Poi ci dirigeremo al ponte per l'ispezione. Se avevate una casa ora non l'avete più. Se avevate una famiglia ora non l'avete più. Se avevate un nome ora non lo avete più. Non create problemi e non vi succederà nulla -.

Il suo tono di voce era sempre uguale, i suoi occhi del tutto spenti che guardavano nel vuoto mentre traduceva quello che il capitano aveva appena detto come se in lui non fosse rimasto più nulla, come se fosse ormai un contenitore vuoto, come se la sua anima ormai fosse volata via dimenticandosi del corpo. Io personalmente non avevo molto da perdere, non avevo una casa, non avevo nemmeno un nome e, tantomeno, avevo un pasto al giorno assicurato. Mentre ci toglieva le catene nessuno osò parlare, nessuno osò fiatare, ma quasi tutti tremavano, non capivano, volevano fare domande ma non volevano essere puniti. Quindi ci alzammo e lentamente ci dirigemmo verso gli scalini che portavano al ponte della nave. Lenti e intimoriti, silenziosi come la notte, appena fuori rimasi accecato un'altra volta, questa volta dal sole.

L'ispezione consisteva nel vedere se eravamo in salute o meno e a seconda del nostro fisico ci avrebbero affidato dei compiti. Controllavano tutto: le mani, i piedi, ci picchiavano sul petto per vedere quanto eravamo forti, ci aprivano la bocca per controllare se avevamo tutti i denti. Sì avere i denti era importante. Ci affidarono quindi i compiti, chi doveva pulire il ponte della nave, chi fare i turni di guardia durante la notte, le altre navi non dovevano mai vederci per nessun motivo, altri invece erano addetti a preparare il cibo. Io ero molto in forma e il capitano decise che non voleva che mi rovinassi, diceva che potevo valere un mucchio di soldi e, lì per lì, non capivo bene cosa intendesse. Diventai il suo cameriere personale. Ognuno quindi prese una strada diversa per adempiere ai suoi compiti. Quello che perse il dente venne accompagnato verso poppa da due marinai anch'essi biancastri e non lo rividi più. Quella sera mangiammo carne. Ritrovai quel dente, lo tengo ancora con me per ricordarmi che non bisogna mai perdere la calma.

La notte dormivamo tutti insieme. Non parlavamo molto tra di noi, eravamo così stanchi che l'unica cosa che volevamo fare era chiudere gli occhi e sperare di risvegliarci a casa. Fare finta fosse solo un brutto sogno era uno dei pochi modi per sopravvivere. Un altro modo era bere il rum dalle botti vicino a dove dormivamo. Non ci era permesso farlo, ma il capitano sapeva bene che in qualche modo dovevamo rimanere vivi se voleva guadagnarci. Ma il modo che mi piaceva di più era cantare. 

Dove sono nato io cantare era una cosa normale, probabilmente più normale che parlare. Per i pirati non era la stessa cosa, loro passavano il tempo a dirci cosa fare, a darci le botte se sbagliavamo qualcosa, a bere il rum e a parlare male del capitano. Una volta il capitano si accorse che due pirati lo prendevano in giro. Uno aveva una barba molto lunga e rossa, gli occhi color ghiaccio e pochi denti in bocca, grasso e goffo. L'altro non aveva barba, magro scheletrico e un solo occhio nero a destra. Il capitano li fissò entrambi beccandoli sul fatto, loro non fiatarono. Prese la sua pistola e la buttò in mezzo ai due dicendo: - Il primo che muore, perde -. Si guardarono per un istante e quello magro si avventò per primo sulla pistola. Prima che il rosso potesse dire qualcosa una pallottola si conficcò tra i suoi occhi di ghiaccio. Quello magro si voltò verso il capitano esultando e sorridendo. Fissai il suo sorriso e lentamente lo vidi trasformarsi in una strana smorfia mentre chiudeva gli occhi e si accasciava a terra con un pugnale in mezzo al petto. Il capitano riprese il suo pugnale. Se ne andò così come era arrivato. Iniziavo a sospettare che da quel brutto sogno non mi sarei mai più svegliato ed iniziai a diventare triste.

I canti liberano l'anima

Cantare per quelli come me era una cosa normale, ancora più che parlare. I pirati non capivano e non gli interessava. Gli importava solo che svolgessimo i nostri compiti e non creassimo problemi. Quindi il modo migliore per alleviare la nostra fatica era cantare. Ognuno di noi veniva da posti diversi, da villaggi diversi e aveva storie diverse. Non conoscevamo quindi canzoni vere e proprie ma quando qualcuno attaccava gli altri seguivano, ognuno con la sua voce e tutti insieme riuscivamo a creare dei suoni che si alzavano verso il cielo e per un istante, solo per un istante, le nostre anime sembravano volare sopra le nostre teste, lontano da quella nave, lontano dalla fatica, lontano dalla tristezza. Io non ero molto bravo a cantare, anzi la mia voce spesso rompeva quella degli altri e le anime si catapultavano di nuovo sulla nave. Nonostante questo non si arrabbiavano con me, sapevano che non tutti abbiamo le stesse qualità e che avrei trovato la mia e così fu. Il capitano aveva uno strano pettine sulla sua scrivania che gli era stato donato da un mercante che lo aveva scambiato col suo servo zoppo. Un giorno mentre gli servivo la cena mi disse: - Ti piace la musica? Quando canti fai scappiare anche i gabbiani! - e con la sua risata roca prese in mano lo strano pettine e me lo diede in mano. - Prova con sta roba, io non ho mai capito come funziona. E ora vattene che devo mangiare -. Era la mia prima armonica.

All'inizio non capivo bene come funzionasse e provavo a soffiare in modo goffo nei fori. A volte uscivano certi suoni striduli che gli altri si tappavano le orecchie e i pirati volevano frustarmi. Ma ero giovane e bello, e il capitano avrebbe fatto un sacco di soldi con me, non mi avrebbero mai toccato nemmeno con un dito. Dopo qualche giorno di pratica però iniziai a capire il meccanismo e diventò più facile, anzi facilissimo. La mia musica accompagnava i canti degli altri e più suonavo più la fatica svaniva, più le anime si alzavano al cielo, più ci sentivamo liberi e la tristezza per un po' svaniva. Contai dodici lune e una notte la barca si fermò all'improvviso.

La Palude

I pirati ci legarono di nuovo e ci fecero scendere in fretta dalla nave. La luna disegnava la sagoma di grossi alberi che uscivano fuori dall'acqua, non li avevo mai visti prima di allora. Gli alligatori nuotavano vicino a noi, nella speranza che qualcuno cadesse in acqua, ma questo non accadde, almeno quella sera. Ci misero dentro delle gabbie e arrivarono in tanti. Avevano tanti vestiti bianchi addosso e urlavano forte parole che non capivo. Quando uno dei pirati urlava - Aggiudicato! - e puntava il dito verso uno degli uomini in bianco tutti si zittivano. Chi sbuffava, chi gioiva ma solo quello indicato dal pirata poteva prendere uno di noi e portarlo via. Eravamo messi all'asta come al mercato del pesce. Quando arrivò il mio turno fu il capitano stesso a battere l'asta e, come aveva premeditato, fece un mucchio di soldi con me. Prima di andare presi l'armonica in mano per ridarglela. Lui mi disse: - Continua a suonare -. Fu l'ultima volta che vidi il capitano.

Il cotone è bianco

Fui comprato da un ricco francese che commerciava cotone con gli stati del nord. La sua casa era enorme, completamente dipinta di bianco con dei grossi alberi che la circondavano. Al piano di sotto c'era la sala da pranzo, la libreria, il pianoforte. Mentre al piano di sopra c'erano le stanze di lui, della signora e dei tre figli. Io e gli altri schiavi dormivamo dentro delle piccole casette non troppo vicine alla casa. Gli altri mi accolsero con piacere, anche se nei loro occhi vedevo che la tristezza era sempre più forte, mi ricordavano gli occhi dell'interprete sulla nave. Qualche sera il padrone veniva a far visita ad alcune schiave ma solo per pochi minuti, il tempo di sentire qualche rumore e poi tornava ai suoi alloggi. 

Il mio compito, così come quello degli altri, era quello di raccogliere il cotone. Potrebbe sembrare un lavoro semplice ma non lo è affatto. Dovevamo farlo in fretta, perchè il padrone doveva vendere il cotone agli inglesi e non poteva tardare. Se eravamo veloci ci frustavano per mantenerci carichi, se andavamo piano ci frustavano per andare più veloci. Le fruste suonavano un ritmo fisso, e il rumore accompagnava lo schiocco. Quel ritmo entrava nella testa e per non sentire dolore iniziavamo a cantare. Quei canti ci tenevano vivi, la stanchezza passava e le nostre anime volavano libere sopra la piantagione. Anche se non ero bravo a cantare avevo la mia armonica e avevo costruito un piccolo supporto con del fil di ferro che mi permetteva di suonarla anche quando le mie mani erano impegnate a raccogliere il cotone.

Mangiavamo poco, meno di una volta al giorno, e spesso molti di noi cadevano senza forze in mezzo al cotone. Gli aiutanti del padrone per aiutare ad alzarci ci frustavano. Un giorno, mentre aiutavo uno di noi, uno degli aiutanti tirò una frustata fortissima che prese in pieno la mia armonica. Si ruppe in due pezzi che volarono da una parte all'altra del campo. Il mio cuore si spezzò con quell'armonica e feci quello che non avevo mai fatto in vita mia: Piansi.

La strega di New Orleans e il gatto triste

La tristezza è un sentimento strano, qualcosa che non ti fa star bene, che non ti piace ma, nonostante questo, non riesci a mandarla via. Ti si avvcina come una vecchia amica che ti vuol consolare, ti coccola e ti abbraccia, e tu non riesci a lasciarla andare. Quando la tristezza mi raggiunse ero solo un ragazzo che lavorava nei campi di cotone e suonava la sua armonica al ritmo delle frustate, cercando di alleviare la fatica. Le cose cambiarono quando arrivò la tristezza, la mia musica cambiò, non dava sollievo e suonava fuori tempo. La mia musica suonava male. Una sera, mentre ci ritrovavamo per fare musica, la luna splendeva più del solito, era rossa come il sangue e la mia musica stonava più del solito. Davo la colpa all'armonica che era vecchia, ma il problema ero io. La tristezza comandava sul mio fiato, sul mio ritmo, sulle mie note. Quella notte, dagli alberi che circondavano la piantagione che precedevano la palude, uscì nel buio una donna. I suoi occhi erano bianchi e nel buio potevo distinguerli bene circondati dai suoi lunghi capelli a serpente. - Ragazzo, la tua musica fa schifo - e rise con una risata che mi ricordava quella del capitano. - Cosa c'è che non va? sei triste? -. Non risposi, feci solo cenno di sì con la testa. - Tu non puoi sopportare la tristezza, sei un'anima pulita. Lo leggo nei tuoi occhi e quindi voglio farti un regalo -.

Prese dalla sua bisaccia un gatto completamente nero con gli occhi blu come il mare. - Dalla a lui - disse mentre avvicinava il gatto al mio volto - dagli la tua tristezza, tu non puoi sopportarla, lui può farlo! Soffia nella tua armonica - Non ci pensai molto, la sua voce era intimidatoria ma convincente. Così lo feci e mentre soffiavo le note entravano dentro la bocca del gatto, come la scia di fuoco che veniva ingoiata dal grosso animale in Africa. La luna si tinse di blu e la strega sparì nel nulla dicendo solo - Ci vediamo a New Orleans -.

Il giorno dopo pensai fosse solo un sogno e come tutti i giorni mi diressi al campo per raccogliere il cotone. Iniziai a realizzare che non si trattasse di un sogno quando vidi quel gatto nero che mi seguiva ovunque andassi. Provavo a cacciarlo quando mi stava tra i piedi, ma non ne voleva sapere. Anche gli altri mi prendevano in giro - Hai trovato un amico? occhio che portano male quelli neri! -. Non ero superstizioso così dopo un po' mi abituai alla sua presenza. 

La nota Blue

Non suonavo ormai da qualche giorno, ma una sera eravamo tutti più stanchi del solito, così ci ritrovammo per suonare. La mia musica non suonava bene, ma decisi comunque di provare. Ci sedemmo attorno al fuoro e ognuno iniziò con i suoi strumenti rudimentali che costruivamo con quello che trovavamo in giro, più o meno niente. Anche se con poca fiducia misi l'armonica alla bocca e iniziai a suonare qualche nota. I suoni uscivano male, tanto male che anche gli altri si interrompevano. Non mi sgridavano, per carità, ma capivo che li infastidivo. A un certo punto il gatto nero si mise accanto a me, seduto coi suoi occhi blu che risplendevano nella notte illuminati dal fuoco. Mi guardò e per la prima volta lo sentii miagolare. Uscì dalla sua bocca una nota strana, un suono che non avevo mai sentito, un suono che veniva dall'anima, un suono triste. Rimisi l'armonica alla bocca e iniziai a suonare attorno a quella nota triste mentre gli altri attaccarono a suonare con me. La nota triste del gatto sosteneva il pezzo, accompagnava le scale, esaltava la mia musica. Quella nota triste pian piano iniziò a farci sorridere, a farci suonare, a farci ballare, a farci ridere. Il gatto prendeva la nostra tristezza e la trasformava in musica, e mentre i campi e la casa del padrone andavano a fuoco noi continuavamo a suonare mentre il gatto miagolava la nota Blue. Eravamo tornati liberi, eravamo tornati felici e la nostra musica lo raccontava con i suoi suoni e le sue note. Quel gatto ci aveva insegnato il Blues.

Dopo quella notte ognuno di noi prese una strada diversa, io e il gatto decidemmo di risalire il Mississippi e trovare nuove persone con cui suonare, nuove persone a cui insegnare la nostra musica, altre persone alle quali poter togliere la tristezza. Molti anni dopo, e dopo aver insegnato il blues in tante altre città dell'America: da Chicago a Boston passando per tutto il Paese, il gatto era stanco di miagolare e mi guardò col suo strano sorriso e mentre suonavo la mia armonica i suoi peli iniziarono a volare via nel vento, restarono solo i suoi occhi blu e il suo sorriso furbo, come quando la luna è solo uno spicchio e ti osserva con quel suo sorriso nostalgico.

Conclusione

Questa è solo una storia, ma come ogni storia ha un messaggio importante. Spesso la tristezza ci assale e annebbia la nostra mente con pensieri terribili e tutto questo incide sulla nostra vita. Ma se impariamo a conoscerla, se impariamo ad amarla, se impariamo ad usare questa tristezza beh, allora possiamo fare grandi cose con lei, come inventare il blues.