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I diari del Coccodrillo
07.09.2023
Quando incontrai gli Hopi

È passato ormai qualche mese dal mio ultimo racconto. Probabilmente troppo. Ma il tempo, come ho sempre detto, è una di quelle cose che non riesco a controllare. Probabilmente quella che mi fa più paura. Ho corso tanto, e quando corri troppo il tempo ti vede, ti segue con calma e senza fretta. Per quanto tu possa cercare di sfuggirgli lui è sempre lì alle tue spalle per ricordarti che ti sta osservando, non ha mai smesso di farlo. Il tempo è un coccodrillo.

Non c'è scampo ma se vuoi che il tempo rallenti, l'unico modo è che impari a rallentare anche te. Non sono molto bravo a farlo, ma ho imparato che ci sono alcuni luoghi dove, non so bene la spiegazione fisico-quantistica, il tempo addirittura si ferma. Uno di questi luoghi è la riserva Hopi, un letto di terra in quel luogo arido e disperato, fatto di sassi, tramonti e cactus che l'uomo bianco ha deciso di chiamare Arizona.

Verso la Riserva Hopi: Attraverso il Sud-Ovest Americano

Il mio viaggio era già iniziato da qualche giorno. Sono partito da Las Vegas, uno di quei posti che sono esattamente come te li aspetteresti. Luci, feste, casinò... tutti i soldi del mondo vengono spesi a Las Vegas. Non saprei dire se mi è piaciuta o meno, è talmente particolare e unica che direi che non puoi parlare di Stati Uniti se non hai mai visto Las Vegas. Ho fatto solo qualche giorno in quell'universo di neon e follia, lo scopo del mio viaggio era un'altro: conoscere i nativi.

Quindi ritirata la mia auto a Las Vegas, riempito di caffè il mio termos formato famiglia, tre bottiglie d'acqua da un gallone ciascuna nel bagagliaio, sistemato il borsone, gonfiato il coccodrillo gonfiabile (mio unico compagno di viaggio)... sono pronto a macinare miglia.

La strada è molta prima di arrivare alla riserva Hopi. La riserva Hopi si trova circondata da un'altra riserva molto più grande, la più grande degli States, che è quella Navajo (nome che gli spagnoli conquistadores diedero al popolo Dinè). Per arrivare le vie sono diverse, alcune più brevi su strade diritte, altre che ti portano a fare qualche deviazione in mezzo al deserto. Ovviamente quando hai fretta vien da sè che la soluzione migliore è quella più veloce. Ovviamente prendo sempre pessime decisioni, ma non sempre sono sbagliate.

Ho attraversato deserti, visto albe e tramonti sugli orizzonti infiniti del South West e ho perso lo sguardo sugli strapiombi del Grand Canyon. Gli spettacoli di una strada sterrata non valgono la velocità di una lingua d'asfalto, i serpenti a sonagli a bordo strada non sono come i cartelli dei limiti di velocità. Ho attraversato paesi sperduti, dove ad attraversarmi la strada è stato solo un grosso toro nero. Mi guardava incuriosito ma non faceva paura. I corvi che mi volavano sul tetto della macchina mi indicavano la strada.

La riserva Hopi

Amo guidare e percorro molti km senza fermarmi, giusto quando il serbatoio scende sotto la metà. Ecco, consiglio spassionato, quando evitate quelle strade dritte e asfaltate tenete sempre presente che non sapete quando troverete la prossima stazione di servizio. L'ingresso della riserva Hopi si trova appena dopo Tuba City, nella riserva Navajo, ma il mio punto d'appoggio per la notte si trovava nel cuore della riserva, quindi strada da percorrere. Tuba City è una piccola cittadina Navajo, qui si può imparare molto della storia di questa tribù e son riuscito a ritagliami un po' di tempo per visitare il cultural center, dove ho avuto anche la fortuna di ascoltare i racconti di un ex Marine Navajo che raccontava del Navajo Code (ne parlo in questo articolo). Lascio quindi questi ultimi edifici e l'ultima stazione di servizio e mi addentro all'interno della riserva Hopi. Il paesaggio all'inizio è roccioso, con diversi tornanti e rocce rosse scolpite dal vento. Questo panorama però cambia rapidamente, lasciando spazio ad una pianura sconfinata ed una sola strada da percorrere: la mia. All'interno di questa prateria ci sono rocce, miniere, segreti luoghi di culto, rivendite di alcolici di contrabbando... tutte cose che se non sei del luogo è meglio che ti tieni alla larga. Guido lento, mentre il sole inizia a scendere. Il navigatore mi da poco più di un'ora di strada in mezzo a quel nulla. La strada è dritta e non voglio percorrerla al buio, ammetto che mi son sentito per un attimo perso. Il tempo ancora una volta mi è alle costole. Il telefono non prende, i dati del navigatore non sono precisi. Manca meno di un quarto d'ora, il sole è sceso e gli ultimi raggi di sole iniziano a disegnare la sagoma di un piccolo edificio ed un cartello spento. Non siamo a Las Vegas, siamo al centro culturale Hopi. Sono giunto a destinazione.

L'Hopi Cultural Center

Ci sono oltre 500 tribù di nativi negli Stati Uniti più o meno numerose. La tribù hopi conta circa 10.000 persone ma circa il 70% vive in riserva. L'Hopi Cultural Center, dove ho passato qualche notte, è in un punto cruciale della riserva, in mezzo alle Mesas, che potrei definirle dei piccoli villaggi sulle colline, dove effettivamente vive la popolazione Hopi.

Non è facile descrivere la riserva, non ci sono vere e proprie abitazioni lngo la strada principale, qualche scuola, qualche centro medico, ma la la sensazione che si prova è strana, sai che c'è gente ma non sai di preciso dove sia. Il mio primo incontro alla reception è con una ragazza giovane, avrà poco più di vent'anni. Ha il volto coperto da una mascherina. In riserva la paura del Virus è ancora viva. Le do il mio passaporto, lo guarda stupita e mi chiede come mai un italiano è finito qui in mezzo al nulla. Le rispondo che mi occupo di turismo, e sto cercando dei posti dove portare i miei clienti. Quasi delusa mi risponde che probabilmente loro non sono quello che cerco, non fanno molte attività per i turisti. Le rispondo che probabilmente è proprio quello che sto cercando.

La stanza è semplice ma funzionale, c'è tutto ed è tutto nuovo, si vede che hanno appena ristrutturato. Anche il cortile è molto spoglio, c'è solo terra ribaltata e uno strano affare a forma di missile al centro del cortile. Scoprirò in un secondo momento che si tratta di una capsula del tempo costruita nel 1972 e che dovrà essere aperta nel 2072. Non so se riuscirò ad avere tutto questo tempo per poter vedere cosa c'è dentro, ma la data me la sono segnata.

Il telefono non prende, la riserva hopi ha un fuso orario diverso rispetto a quello dell'Arizona, che è diverso da quello di altri stati accanto. Non ho idea di che ora sia e di un telefono che non prende me ne faccio poco. Il tempo si è fermato.

Gli Hopi

Mi sveglio presto al mattino, non che abbia un programma dettagliato, ma voglio scoprire la riserva. Soprattutto voglio conoscere chi vive lì. Faccio colazione con un caffè e un piatto di uova, servito alla tavola calda del cultural center. Non è tra i migliori ma nemmeno tra i peggiori, è un caffè e non serve che sia altro. Prendo la macchina, a piedi non si può andare da nessuna parte, le distanze sono lunghe e alcune strade non mi ispirano molta fiducia. Mi dirigo verso Prima Mesa, non è tanto distante da dove mi trovo e dovrebbe essere un po' il cuore della riserva. Sulla strada c'è poco, qualche prefabbricato, qualche roulotte e qualche casa abbandonata. In lontananza scorgo il centro medico e un memorial center. Mi dirigo così verso la collina, la vera e propria Mesa. Ci sono molti tornanti e si sale molto. La riserva vista dall'alto è immensa e pianeggiante, mentre le rocce dell' altura mi accompagnano fino alla cima dove è situato il villaggio. Ci sono diversi cartelli che dicono di non far foto. I motivi per cui non bisogna fare foto nelle riserve indiane sono tanti, quello che preferisco è che a nessuno fa piacere farsi fotografare a caso come se fosse un'attrazione o un fenomeno da baraccone. Lascio quindi il telefono in macchina, tanto non prende e non saprei cosa farmene. C'è una donna che pulisce la strada, la saluto e mi fa un mezzo sorriso. Torna in fretta a pulire e a dar da mangiare a una ventina di gatti. Si sente solo il rumore del vento e di alcune persinane sgangherate che sbattono contro le pareti delle abitazioni. Cammino tranquillo e mi godo il panorama. Sento un rumore in fondo alla strada. C'è un vecchio seduto su dei gradini. Ha un coltello in una mano e un pezzo di legno nell'altra mano. Mi sorride coi suoi tre denti e mi fa cenno di avvicinarmi. Sta scolpendo delle bamboline Hopi, dei manufatti tipici di questa popolazione, dei pezzi di arte indiana unici che hanno un valore autentico. Gli dico che non ho abbastanza soldi per comprare, li vende a 200 dollari, e li valgono tutti! Ma non li ho, e non è disposto a trattare. Nonostante questo ci tiene a raccontarmi il significato dei vari simboli, delle varie sculture e mi invita ad entrare in casa.

La casa è il suo laboratorio, la sua cucina, la sua camera da letto, la sua stufa per scaldarsi. "Sono anni che non ho una moglie" e dalle decine di lattine di cibo pronto aperte che c'erano in giro non stentavo a crederlo. Continua a raccontarmi tutto sull'arte Hopi, su come ricavano i colori dalla natura, della differenza tra la lavorazione dell'argento dei Navajo e quella Hopi. Non ha un grande interesse a vendere, gli affari coi turisti gli vanno bene e quindi perde un po' di tempo a mostrarmi la riserva dall'alto. Mi indica dove si trova il nord, cosa c'è a sud e la direzione per l'ovest. "Da quella parte invece?" gli dico. "Ahh beh. di là c'è il New Mexico" con un tono nostalgico, come di mille storie che non mi ha raccontato, ma che so che ha vissuto.

Non pranzo, non ho tempo. Continuo il mio giro risalendo in macchina. Il panorama è sempre più incredibile e vario passando attraverso le Mesas, cosa che non mi sarei mai aspettato guardando dalla strada principale. Ci sono diverse gallerie d'arte, qualche luogo di culto e poche case, tutte che chiedono di non far foto. Mi fermo in un punto isolato in altura, sto sempre attento che non ci siano serpenti nelle vicinanze e mi sporgo per guardare quella che è una antica miniera. Il sole scalda e il vento suona la sua musica, nonostante l'alcol sia vietato in riserva ci sono molti vetri di bottiglia rotti. Vorrei avere più tempo, ma devo anche riposarmi, così decido di tornare al cultural center.

Dovrebbero essere le 14:00, parcheggio la macchina. Vedo delle bancarelle, così mi avvicino per vedere cosa vendono. Sono giusto un paio, ma tutte di artigianato locale. Vero artigianato, cose fatte a mano da loro o dai loro familiari. Così si presenta Long.

Long è un Hopi orgoglioso della sua cultura e delle sue tradizioni. Vendere è secondario, infatti non perde tempo a convincermi di comprare la sua arte, ci tiene più a spiegarmi il significato. Voglio spingermi oltre il significato dell'arte, così gli chiedo a Long come fosse la vita nella riserva. Long mi guarda felice, si vede che gli piace raccontare storie. Anche sua moglie lo sa, infatti torna a lavorare per non ascoltare probabilmente per la milionesima volta la stessa storia. 

Long è nato in riserva, ci è cresciuto ma ha vissuto anche in città. Non so in quale città, non me lo ha detto e non era importante. Quello che era importante è che Long proprio non ce l'ha fatta a vivere lontano dalla sua terra. Soprattutto non voleva vivere senza la sua tradizione e la sua cultura. Non ha senso per lui avere degli orari, svegliarsi la mattina per fare sempre la stessa identica cosa, allo stesso orario. Nella sua cultura l'orologio non esiste. Quando c'è il sole è giorno, quando non c'è è notte, non è importante che ora sia. Long ci è riuscito, ha sconfitto il tempo.

Mi parla anche dei giovani, dei suoi figli che sono lontani e stanno studiando. Vorrebbe per loro il meglio ma vorrebbe anche che vivessero con lui in riserva. Certo la riserva ha i suoi grossi problemi. I giovani non hanno molto da fare, le opportunità non sono molte, anzi. Spesso tutto questo, come in ogni angolo del pianeta, porta a voler passare il tempo in modi che non sempre sono corretti. Ecco perchè l'alcol è vietato in riserva. Ecco perchè ci sono i vetri rotti nei luoghi isolati. Long mi saluta, io gli regalo un sigaro italiano. Il tabacco per i nativi è una cosa seria, quindi apprezza come se fosse un diamante prezioso.

Gli prometto di salutarlo prima che vada via, vado un attimo nel cortile del cultural center. Il tempo al cultural center non esiste, il sole si nasconde dietro la pianura e le stelle iniziano a farsi vedere. Non rivedrò più Long.

A farmi compagnia c'è un cane che ha deciso di vivere sotto la mia macchina e che ha deciso di diventare il mio migliore amico per questa sera. Ceno al ristorante del cultural center con un frybread: una sorta di taco fritto condito con fagioli, pomodoro, insalata e carne. Chiedo se c'è una versione vegetariana: "Certo!". Ovviamente la carne trita per gli Hopi fa parte della categoria verdure.

Dopo cena mi metto nel cortile, di fianco alla capsula del tempo. Ho un altro sigaro nella borsa, lo prendo e lo accendo. Un giardiniere mi saluta. Ricambio e gli chiedo come mai non c'era l'erba ma solo la terra ribaltata. Con la classica voglia di raccontarsi che hanno gli Hopi mi sorride e inizia a spiegarmi come funziona quel cortile. Mi insegna che la cultura Hopi non è fatta solo di bamboline e manufatti, ma anche di agricoltura, in particolare il mais. Il cortile è fatto per coltivare il mais, e proprio oggi stava preparando la terra per iniziare a seminare. Vedere quel cortile invaso da pannocchie deve essere uno spettacolo incredibile, specie se ti piacciono le piante. Questa è la cultura, questa è la riserva, il lavoro, la vita. "Quando sarà pronto il raccolto?" gli chiedo. Mi risponde "Quando sarà pronto". Finisco il mio sigaro e vado a dormire. Non so che ora sia, e non mi importa.

Verso nuovi orizzonti

La mattina dopo mi sveglio quando il sole non è ancora sorto ma si inizia a vedere la luce. Il mio soggiorno al cultural center finisce qui. Lascio le chiavi alla ragazza della reception che mi dice "Ci vediamo dopo". Gli Hopi non dicono mai addio o arrivederci, sono sicuri che prima o poi ci si incontrerà ancora. Riempio il termos di caffè, saluto il cane e ripenso al vecchio. Guardo verso est. "Di la c'è il New Mexico" e riprendo il viaggio.